Politiche di governo innovative

Intervenire per valorizzare le risorse anche nei territori lacustri

Il tema del governo del territorio è divenuto pressante negli ultimi anni, sotto l’urgenza delle tante questioni legate alla sostenibilità del vivere collettivo e alla drastica diminuzione delle risorse. Si è tentato di fare un passo in avanti rispetto alle problematiche di carattere più generale, assumendo come riferimento i laghi, ossia porzioni di territorio le cui specificità ne fanno luoghi privilegiati per sperimentare forme innovative di politiche locali più autenticamente comunitarie.

Intervenire sul territorio

La prima sfida è quella dell’interdisciplinarietà; la seconda è quella di trarre indicazioni e strumenti innovativi per la riflessione più propriamente giuridica. Assumere una prospettiva di carattere interdisciplinare, in cui la riflessione giuridica si coniuga con quella storico-economica, consente infatti di forgiare i paradigmi e gli strumenti delle politiche pubbliche sui valori dei luoghi e delle comunità, così come si sono venuti costruendo intorno ai temi essenziali della loro storia: consente cioè di sganciare la delicata costruzione delle politiche dalla contingenza e dalle strategie della politica del presente, e di riconnettere quest’ultimo al passato, ritrovando e coltivando quella capacità di visione di lungo periodo senza la quale la politica è muta.
Ciò è tanto più vero se le politiche pubbliche di cui ci si occupa sono quelle di governo del territorio; ancor più se il livello considerato è quello locale; e ancor più, infine, se l’attenzione si concentra ulteriormente su porzioni di territorio caratterizzate da identità specifiche e risalenti, come quelle che gravitano intorno ai laghi. È infatti su questi fronti che si coglie in modo più evidente la complementarietà delle prospettive e degli interlocutori: pubblico e privato; identità locali e modelli di produzione; territorio e benessere sostenibile; istituzioni, abitanti e produttori. 
Il confronto sui grandi temi che oggi impegnano i territori è in realtà risalente. La storia del lago Trasimeno, ad esempio, rivela come già fra il XVIII e il XIX secolo i temi della pubblica utilità, del benessere economico e della salute pubblica abbiano cominciato ad essere affrontati entro prospettive connesse e dialoganti, nel tentativo di comprendere e contemperare le ragioni della produzione e quelle della salute pubblica. Come insegna Alberto Magnaghi, il territorio è un «organismo vivente ad alta complessità»; e tale complessità impone oggi di recuperare quell’idea di dialogo tra saperi diversi, peraltro entro una cornice più ampia, che sappia arricchirsi dei saperi degli abitanti quali interpreti della «mente locale» e della coscienza dei luoghi. La necessità di un confronto costante rimanda del resto alla tensione insita nell’idea stessa di persona e di società; la tensione, cioè, tra felicità e fragilità: tra l’aspirazione ad un benessere duraturo e adeguato al contesto di vita e la fragilità quale struttura portante dell’esistenza, che quella felicità costantemente ostacola o incrina. Da un lato, l’innata e fisiologica aspirazione a una “vita degna”, che il progetto moderno di sviluppo ha in certo senso tradito, viene oggi riportata nell’alveo della riflessione sulla felicità pubblica dell’uomo situato: molti autori propongono visioni alternative del rapporto tra economia, felicità, benessere collettivo e territorio, mettendo in evidenza la «natura sociale della felicità». Dall’altro, una rinnovata e più costruttiva riflessione sul tema della fragilità, quale condizione non patologica bensì strutturale della persona, delle comunità e dei territori, sta recuperando la prospettiva e il valore di un patrimonio di risorse sganciate dai misuratori economici e connesse piuttosto alle capacità e alle reti relazionali.
Insomma, nella situazione di grande incertezza – economica e non solo – che contrassegna questa peculiare fase storica, sono oggi in atto taluni fenomeni che spingono verso la ricerca di nuovi strumenti di lettura e soddisfazione dei bisogni, offrendo nuove chances di avvicinamento tra felicità pubblica e fragilità. E questi fenomeni, seppur diversi, convergono nel porre le amministrazioni locali in una posizione delicata e strategica.

Le crisi da affrontare

Il primo gruppo di fenomeni riguarda indubbiamente le crisi. E se quella economica ne costituisce solo un aspetto, per lo più affrontato secondo logiche emergenziali miopi e riduttive, si pensi ad aspetti assai più complessi quali quelli legati alla sostenibilità ambientale, all’esposizione a fattori inquinanti, alla cura dei beni comuni, ecc.  
Le nuove forme di fragilità rivelate dalle nuove crisi reclamano politiche che sappiano recuperare e mantenere un contatto costante con le coscienze dei territori, attraverso l’inclusione dei saperi civici e delle capacità degli abitanti nei processi di costruzione e attuazione delle risposte ai bisogni. Come dimostra la rivoluzionaria definizione di paesaggio contenuta nell’omonima Convenzione europea del 2000, che si riferisce al «paesaggio così come è percepito dalle popolazioni», i saperi degli abitanti assurgono a componente essenziale delle politiche, accanto ai saperi politici e a quelli esperti (ma v. anche il concetto di «democrazia ambientale» fatto proprio dalla Convenzione di Aarhus, dalla dir. Ue 92/2011, e in Italia dalla sentenza della Corte costituzionale n. 93/2013).
Il secondo gruppo di fenomeni attiene all’ampliamento della sfera degli interlocutori e alla connessa disarticolazione del paradigma della cittadinanza. Come è noto, quest’ultimo è oggetto ormai da tempo di un ripensamento radicale nelle sue categorie tradizionali, soprattutto in riferimento alla dicotomia inclusione/esclusione. Significativa è la moltitudine di aggettivi che frequentemente accompagna il termine cittadinanza: si parla di cittadinanza sociale, amministrativa, locale, attiva, scientifica, ambientale, sanitaria, ecc., per indicare la necessità di recuperare un ruolo attivo della persona rispetto alle scelte che la riguardano, indipendentemente dal possesso della cittadinanza formale. 
Quest’ultima non è più garanzia di conoscenza dei luoghi, mentre lo è la vicenda dell’abitare, in quanto fonte di saperi e competenze esperienziali che vanno costruendosi e riconoscendosi sulla base del comune riferimento ad un territorio. Il complesso tema della qualità politica dell’abitare pone al centro delle politiche non più il cittadino astratto bensì la persona situata (residente, abitante, city user, ecc.), quale soggetto di relazioni e di interessi territorialmente orientati che ne conformano in modo nuovo i diritti e le responsabilità, l’esercizio della sovranità e l’interlocuzione con le amministrazioni.
Tutti gli attori locali (pubblici, privati, economici) sono dunque profondamente e inscindibilmente coinvolti nella costruzione di politiche pubbliche innovative, attraverso lo sviluppo di un metodo di governo collaborativo e democraticamente sostenibile, permeabile ai saperi dei territori e capace di costruire progetti di futuro condiviso. 
E la sfida delle politiche locali diviene quella di favorire e guidare la mobilitazione dei nuovi saperi collettivi e del capitale sociale per costruire nuove forme di sostenibilità del vivere individuale e collettivo.
Questo compito, ovviamente imposto a tutte le istituzioni repubblicane, per il livello locale assume «una giustificazione maggiormente cogente». Come infatti ricorda Umberto Allegretti, si può davvero pensare di staccare il Comune, la sua organizzazione e il modo di svolgere le sue funzioni dall’esistenza e operatività della sua comunità di riferimento? O invece la partecipazione e l’interazione effettiva tra istituzioni e società appartengono alla natura più profonda del Comune come ente di base?
Ciò appare tanto più vero in contesti territoriali ove insistono elementi naturali peculiari (come i laghi), in cui le istituzioni e gli abitanti condividono identità e saperi che sono dettati e accomunati dalle caparbie esigenze di quei luoghi prima ancora che dalle visioni politiche e dai confini amministrativi tra i singoli Comuni.

Il ruolo delle amministrazioni

In questo contesto di trasformazione dei ruoli, in cui le amministrazioni locali devono dotarsi di nuovi strumenti per agevolare processi riappropriativi di sapienza ambientale e di legame sociale, il paradigma collaborativo diviene la chiave di volta delle politiche con e per il territorio. Tale paradigma costituisce l’unico legante che può aspirare a riavvicinare e tenere insieme bisogni e capacità, felicità pubblica e fragilità; esso rappresenta l’unica prospettiva realmente compensativa rispetto ai limiti delle risorse politiche (legate alla rappresentanza) e delle risorse economiche (legate al mercato).
La centralità del principio collaborativo, che già la nostra Costituzione aveva riconosciuto fin dai suoi primi articoli (v. in particolare gli artt. 1, 2 e 3), è stata ampiamente sostenuta e argomentata in Italia dagli studiosi della democrazia partecipativa, del federalismo cooperativo e del territorialismo.
Ciò che contraddistingue e accomuna queste teorie è il profilo processuale e metodologico. La collaborazione è non soltanto un valore ma anche un metodo, e come tale necessita di strumenti e di garanzie.
In particolare, le teorie originarie del federalismo evidenziavano le dinamiche di tipo cooperativo e reticolare fra i diversi soggetti coinvolti nei processi decisionali, in ossequio all’etimologia del termine foedus (patto, alleanza). Tali letture lasciavano sullo sfondo la dimensione prettamente territoriale di distribuzione del potere e indagavano piuttosto le interconnessioni e i rapporti reticolari fra i diversi soggetti, pubblici e privati, configurando il metodo di governo delle comunità secondo un modello di tipo inclusivo e collaborativo. La tradizione di pensiero avviata nel Nord-America e raccolta in Italia da Silvio Trentin e Carlo Cattaneo intendeva il federalismo come «struttura per partecipare», ovvero come un insieme di assetti mutuamente cooperativi basati sull’interazione solidale fra attori diversi in una società complessa, volto a costruire le condizioni per lo sviluppo politico e sociale e a sviluppare gli strumenti di una democrazia autenticamente partecipativa. 
Questa impostazione, di certo non nuova ma a lungo trascurata soprattutto in Italia, costituisce oggi la risposta ineluttabile e più credibile ai fallimenti dei falsi federalismi, quelli strumentali a logiche destrutturanti e decisioniste in cui il federalismo viene concepito piuttosto come «struttura per decidere». 
La stessa riforma costituzionale del 2001, da molti impropriamente aggettivata in senso federale, è l’espressione di un atteggiamento politico vago e approssimato che non ha saputo cogliere le connessioni più profonde tra le ragioni del federalismo e quelle della partecipazione. Con l’esplosione dei nuovi e più cocenti fenomeni di crisi, il federalismo come struttura per partecipare sembra invece poter ritrovare il proprio terreno privilegiato nelle vicende dei territori e delle comunità locali, quale espressione di una rinnovata autonomia che abbia come asse portante la democrazia partecipativa e quello che è stato felicemente definito come «federalismo municipale solidale» (Magnaghi).
Il governo locale diviene allora decisivo rispetto ai processi di sviluppo dei territori, nella misura in cui riesca a migliorare l’efficacia del proprio metodo attraverso politiche pubbliche collaborative e partecipate, orientate alla valorizzazione dei contesti locali e delle risorse e capacità degli abitanti.

Cittadini protagonisti

In questa prospettiva, la partecipazione si configura come vero e proprio metodo del decidere e dell’agire pubblici; e, per strutturarsi in tal senso, necessita di regole e di garanzie adeguate. È in questa direzione che si è orientata la seconda giornata del convegno, nel tentativo di declinare le indicazioni provenienti dagli approfondimenti di carattere storico-economico della prima giornata in risposte e strumenti adeguati sul piano politico-giuridico.
Il tema della qualità e dell’efficacia delle politiche territoriali rilancia oggi più che mai la questione del metodo, ossia la necessità di un tipo di partecipazione capace di ridurre l’asimmetria delle amministrazioni attraverso l’utilizzo permanente dei saperi e delle capacità degli abitanti, in forme stabili di interlocuzione e collaborazione.
Ma siccome non può esservi metodo senza garanzie, esso richiede l’apprestamento di regole volte a creare e garantire le pre-condizioni della partecipazione. Tali garanzie sono chiamate a rimodulare l’essenza stessa dei concetti di “deliberazione” e di amministrazione: non più decisioni ma “processi” decisionali, non singoli atti ma parti di una strategia istituzionale complessiva, non più soltanto delega ma costruzione di una robusta intelaiatura di strumenti collaborativi e di condizioni abilitanti.
È soprattutto nella prospettiva locale che la necessità di metodi inclusivi appare evidente. Le politiche di governo dei territori reclamano infatti un metodo di governo che sappia integrare ingranaggi stabili di tipo circolare e reticolare nei processi di costruzione, attuazione, controllo e valutazione delle politiche. 
Da ciò discende un’azione pubblica più procedurale che decidente, fondata sulla costruzione e garanzia di spazi pubblici e procedure di confronto che lascino aperto l’ingresso ai soggetti e ai saperi che di volta in volta vengono in gioco.  
Non è un caso che la rinnovata attenzione per i saperi civici e il capitale sociale si sia sviluppata proprio in questa particolare fase storica e proprio attorno al tema dei beni comuni, e che a quest’ultimo si guardi con crescente attenzione anche nel dibattito sugli strumenti per uscire dalla crisi. Come infatti ha evidenziato la relazione di Marco Bombardelli, è in atto un drastico mutamento nelle modalità di definizione dei bisogni: sempre più spesso questi vengono espressi dalle comunità stesse mediante procedure partecipative e sono realizzati, laddove possibile, per mezzo di patti di collaborazione fra abitanti e istituzioni.

Il metodo d’intervento

Il tema dei beni comuni sembra insomma aver definitivamente dimostrato la necessità di politiche incentrate sui processi, sul metodo e sulle capacità piuttosto che sul decisionismo tecnocratico e l’unilateralità delle risposte. Da ciò discende la necessità di un quadro di regole duttili e plurali, dal carattere eminentemente procedurale e organizzativo, volte a strutturare le opportunità di partecipazione: pre-condizioni, incentivi, strumenti comunicativi, garanzie, sperimentazione, monitoraggio, valutazione, controllo. 
La gamma delle scelte regolative non potrà che mantenersi variegata, in ossequio all’autonomia e alla “fantasia” istituzionale dei singoli enti; così come è opportuno che le forme di regolamentazione mantengano un carattere sperimentale e flessibile, al fine di potersi continuamente perfezionare sulla base della valutazione degli effetti prodotti. 
Ma ciò che deve restare non fungibile è il quadro essenziale dei principi e dei criteri destinati a presidiare il metodo
Del resto, non occorre certo ricordare come la competenza normativa delle amministrazioni locali in tema di partecipazione trovi un fondamento ancora solido, oltre che nei principi costituzionali, negli artt. 7 e 8 del Testo unico degli enti locali (d. lgs. n. 267/2000). Questa competenza è stata utilizzata in passato principalmente attraverso l’istituzione delle circoscrizioni, quali organismi decentrati volti a consentire forme di partecipazione strutturata della società civile; ma la non brillante esperienza di tali organismi, unita alla loro recente soppressione, apre scenari nuovi per l’introduzione di forme di partecipazione innovative.
E se per un verso la scelta degli istituti partecipativi e delle soluzioni procedurali e organizzative dovrà mantenersi coerente con i principi generali su cui si fonda il modello di democrazia partecipativa, per altro verso essa dovrà sapersi declinare sui singoli contesti e le relative specificità, pena il rischio di inefficacia di quelle norme: non astratti dispositivi procedurali, dunque, bensì politiche partecipative orientate dai principi di inclusività, effettività, giustizia sociale, eguaglianza sostanziale. 
Inoltre, il carattere circolare impresso alle politiche dei territori dalle evoluzioni in atto impone di rendere stabile la collaborazione in tutte le fasi del ciclo di vita delle politiche: a) i processi decisionali di progettazione e programmazione degli interventi; b) i processi attuativi e di azione concreta nei territori; c) i processi di valutazione ex ante ed ex post della fattibilità, della qualità e degli effetti delle decisioni e degli interventi.

I regolamenti comunali

Un dato incoraggiante in questo senso viene dal panorama dei regolamenti comunali vigenti in tema di partecipazione: le tendenze degli ultimi anni sembrano mostrare una crescente consapevolezza in ordine all’opportunità di dotarsi di nuove regole in chiave più autenticamente collaborativa.
Seppure in presenza di luci e ombre che rendono questa produzione normativa estremamente eterogenea, fra timide repliche di istituti obsoleti e previsioni più coraggiose di istituti innovativi, i dati che emergono sono nel complesso significativi. Un primo gruppo di dati attiene ai regolamenti comunali che disciplinano la partecipazione a processi decisionali (c.d. democrazia partecipativa). Quasi un terzo dei Comuni italiani si è dotato nel tempo di uno o più regolamenti in materia; e la maggior parte di questi risulta adottata dopo il 2001, con un aumento ulteriore fra il 2011 e il 2016.
Con riferimento ai contenuti, tendenze incoraggianti vanno affiancandosi alle carenze e criticità più risalenti: da un lato si tende a disciplinare in modo organico la varietà degli istituti partecipativi attraverso l’adozione di regolamenti-quadro, talvolta si allegano ai regolamenti linee guida metodologiche per la costruzione dei processi partecipativi, si amplia l’inclusività attraverso l’allargamento dei soggetti legittimati a partecipare (non più soltanto cittadini strettamente intesi ma anche residenti e abitanti, studenti, city users, ecc.). Dall’altro lato, tuttavia, si riconosce ancora ampio spazio a forme partecipative scarsamente inclusive ed efficaci (come i referendum consultivi e le consulte), mentre non si presta sufficiente attenzione alle garanzie (pubblicizzazione degli esiti dei processi partecipativi, obbligo di motivazione della decisione finale, formazione e competenza dei responsabili del processo partecipativo, sperimentazione e valutazione).
Un secondo gruppo di dati attiene ai regolamenti che disciplinano la partecipazione all’attuazione concreta delle politiche (c.d. “amministrazione condivisa”, affermatasi in particolare nei processi di cura dei beni comuni urbani). Questi rappresentano una realtà assai più recente, avviata dal noto regolamento approvato dal Comune di Bologna nel 2014 (cfr. www.labsus.org): ma da allora, quasi un centinaio di Comuni lo hanno replicato e altrettanti ne hanno avviato il percorso di adozione. I molti aspetti di questa vicenda confermano l’accelerazione impressa dalle crisi alla necessità di fare della cura dell’interesse generale una questione di corresponsabilità e non più soltanto un servizio da fornire ai cittadini-utenti. 
Essi disciplinano le pre-condizioni e i livelli essenziali della partecipazione fattiva, con riferimento agli aspetti procedurali e organizzativi necessari per promuovere e legittimare giuridicamente l’inclusione dei cittadini attivi nell’esercizio di attività di interesse generale; e contengono previsioni nel complesso più mature (ad esempio in tema di valutazione), che potranno fornire utili spunti anche alla disciplina degli istituti di democrazia partecipativa. 
Un terzo gruppo di dati attiene infine alla tendenza, ancor più recente, a considerare insieme e in modo organico i due aspetti: portando avanti congiuntamente le proposte di regolamento sulla democrazia partecipativa e sull’amministrazione condivisa, o addirittura redigendo atti unitari che mettono in connessione gli strumenti partecipativi classici con quelli della collaborazione fattuale (la “partecipazione al decidere” e la “partecipazione al fare”). Questi regolamenti, ancora non numerosi perché legati all’evoluzione assai recente del modello dell’amministrazione condivisa, sono tuttavia molto significativi perché costituiscono i primi tentativi di rendere effettivamente complementari i due modelli e le due facce della partecipazione. Il tentativo di integrare le due forme di partecipazione dimostra come vada crescendo la consapevolezza della necessità di chiudere il cerchio degli strumenti di esercizio della cittadinanza sostanziale e dunque della sovranità, affinché questa possa finalmente divenire permanente ed effettiva come ancora chiede la Costituzione nel secondo comma del suo art. 3.   

Puntare sulle risorse

In questa prospettiva il ruolo e la fisionomia degli interlocutori (sia pubblici che privati) cambiano radicalmente: i cittadini vengono considerati come portatori non solo di bisogni ma anche di risorse; e l’amministrazione diventa uno dei “luoghi” in cui la varietà, le capacità e le risorse delle persone possono manifestarsi, contribuendo alla soluzione di problemi di interesse generale (Arena, 1997).
Raccogliere la sfida della circolarità delle forme di collaborazione e partecipazione sembra oggi la direzione più sensata da seguire per rivitalizzare la democrazia locale. Gli strumenti giuridici ci sono: accanto a quelli più nuovi che si stanno consolidando in questi anni (come i patti di collaborazione fra Comuni e abitanti), altri più risalenti vanno ritrovando una rinnovata attualità, come ha dimostrato la accurata ricostruzione di Eugenio Caliceti sul tema degli usi civici.
Ma come ha ricordato Fulvio Cortese nella terza relazione della sessione giuridica del convegno, il legante imprescindibile non potrà che essere la visione progettuale e procedurale del bene comune, la sola che possa aspirare a mettere in relazione fra di loro e sapientemente ricucire i molti esempi virtuosi di buone regole e il capitale sociale sempre più maturo. Una volontà politica autenticamente rivolta al cambiamento può oggi già disporre di una trama giuridica sufficientemente consolidata –sebbene ancora in divenire- per costruire politiche dei territori più attente alla sostenibilità del vivere.
Il capitale sociale, nel quale si muovono saperi sempre più esigenti ma anche competenti, è energia rinnovata e decisiva che attende di essere liberata, tanto più in territori (come i laghi) che per loro intrinseca “natura” sono beni irrimediabilmente comuni e accomunanti.

 

* Questo testo riprende anche parte delle considerazioni svolte nell’omonimo saggio contenuto nel volume Ambiente e pubblica felicità tra idee e pratiche. Il caso del lago Trasimeno, a cura di Regina lupi e Sara Alimenti, Milano, Franco Angeli, 2016.